1
Isaac Tutuola abbassò il pulsante sulla sinistra della cassa,
tirò fuori parzialmente la cartuccia e regolò il pulsante sulla superficie. Poi
girò la piastra rotante sulla destra e aspettò che comparisse il primo buco.
Spinse la grappa verso sinistra, sul fondo, e vide comparire il secondo. Si
aggiustò la pesante montatura degli occhiali sul naso e si sganciò la collana d’oro
dal collo. Fissò la chiave dorata oscillare nell’aria prima che quest’ultima battesse
contro il ciondolo d’oro. Poi allontanò il ciondolo con l’indice e infilò la
parte frontale della chiave nell’apposito foro con un angolo di 45 gradi. Girò
la chiave di 90 gradi sulla destra, in modo che questa risultasse orizzontale e
la inserì fino in fondo per sbloccare il carrello. Il lucchetto scattò e la porta
si aprì.
Non
ricordava chi gli aveva dato quel complicato lucchetto coreano tradizionale, ma
sentiva di doverlo usare in ogni posto dove andava.
Il
bilocale al terzo piano di via Anelli puzzava di chiuso, uova fritte e piscio. Qualche altro
nigeriano l’aveva abitato prima di lui, ipotizzò Isaac Tutuola, spalancando la
portafinestra che dava sulla terrazza. La luce del pomeriggio illuminò gli
scarafaggi correre all’interno dell’intonaco scrostato. Il linoleum giallastro
del pavimento era rigonfio e quattro materassi erano accatastati in un angolo.
Isaac
Tutuola si riagganciò la collana al collo e uscì in terrazza, respirando l’aria a pieni polmoni.
Abeokuta,
la sua città natale, gli mancava. Era stata fondata nel lontano 1825 per
sfuggire ai cacciatori di schiavi. Tribù diverse si erano unite in quella
splendida pianura per vivere liberi e protetti dalle enormi mura di fango che
circondavano la zona per miglia.
Chiuse
gli occhi e sentì il profumo del cacao penetrargli le narici. I suoi genitori
lo coltivavano, mentre lui correva nella fertile pianura dai massi di granito
grigio. Poteva sentire il tam- tam ipnotico dei tamburi Yoruba. La sua etnia
era formata da schiavi che mescolavano le tradizioni cattoliche con le credenze
Voodoo. I potentissimi sonagli gong potevano risvegliare gli spiriti maligni se
suonati da mani inesperte. Lo stregone del suo villaggio lo ripeteva
continuamente.
Isaac
Tutuola tirò le sue labbra carnose, lasciando comparire una fila di denti
bianchissimi. Non credeva più a quelle fesserie. Aveva studiato presso
l’Esercito della Salvezza e poi all’università di Ibadan, la seconda città
della Nigeria. La sua specializzazione in culture antiche lo portava a deridere
certe superstizioni, ma ricordava quelle cerimonie con nostalgia.
Il
clic di un coperchio lo fece voltare di scatto.
Una
giovane donna era alle sue spalle con un piede posato contro il muro e la
vestaglia di seta rosa che le lasciava scoperte le cosce color avorio.
Isaac
Tutuola si aggiustò la pesante montatura nera sul naso. La sua innata timidezza
gli impediva di parlare.
La
donna ruotò la pietra focaia dell’accendino, si infilò una sigaretta tra le
labbra e lo guardò con i suoi profondi
occhi blu.
<Vuoi?>
Gli chiese, allungandogli il pacchetto oltre la ringhiera che divideva le
terrazze dei due appartamenti.
Isaac
Tutuola rispose di no con la testa.
La
donna si infilò il pacchetto tra l’elastico degli slip ed espirò il fumo dalle
narici. <Sei nuovo?> Gli domandò, stringendo la sigaretta tra le unghie
smaltate di rosso.
Isaac
Tutuola fissò l’ombra del suo cranio rasato accennare un sì di risposta.
La
donna strinse la sigaretta tra le labbra rosate, prese una boccata di fumo e
accennò un sorriso. <Hai anche un nome?> Continuò, ritornando seria.
<Isaac>.
Si presentò lui, lisciandosi i fianchi dell’enorme giacca classica che lo
faceva sembrare un attaccapanni malconcio. <Isaac Tutuola. Piacere>. Gli
allungò la sua mano nero carbone.
La
donna guardò all’interno del suo appartamento, spostando i suoi folti capelli
rossi sulle spalle. Poi ritornò con lo sguardo su Isaac.
<Isaac>.
Ripeté lei in tono carezzevole. <È un nome ebreo>. Disse lei.
<I
miei genitori erano di religione cristiana>. Le spiegò lui, allentandosi il
collo della camicia ereditata da uno di quei centri per l’accoglienza dei
poveri disperati.
<Possa
Dio ridere>. Mormorò lei, mentre contemplava il filtro della sigaretta.
<Come
scusi?> Domandò Isaac, strofinandosi i palmi delle mani contro i pantaloni
classici di due taglie più larghi.
<Isaac
significa: Possa Dio Ridere>.
Ripeté lei, assorta.
Isaac
scosse la testa. Conosceva il sanscrito, l’ebraico, il greco e la maggior parte
delle lingue europee alla perfezione e non si era mai soffermato
sull’etimologia del suo nome. Era un significato poco adatto al suo carattere serio
e pacato, amava stare da solo, in silenzio, ma questo certo i suoi genitori non
potevano saperlo a priori.
<E
Lei come …>. Cominciò a dire, prima che il campanello suonasse.
La
donna spense la sigaretta con il tacco a spillo. <Nika>. Rispose, prima di
rientrare nell’appartamento.
Il
campanello suonò di nuovo.
<Nika>.
Ripetè Isaac Tutuola rimanendo qualche secondo con la bocca aperta. Poi si
voltò verso la porta del suo appartamento. Qualcuno bussava animatamente.
<Isaac?>
Gli chiese un cinese, appena lo vide aprire la porta. <Isaac Tutuola?> Si
assicurò di essere nel posto giusto.
Isaac
annuì con la testa più volte.
<Quello
che hai oldinato>. Gli disse, allungandogli un sacchetto di carta con la
scritta ‘Supermercato Sun‘.
Isaac
lo ringraziò con una banconota da dieci euro. Prese il sacchetto e lo posò sul
pavimento. Non aveva altro, se non quei due soldi che l’università gli aveva
prestato. Era senza passaporto, senza bagaglio e le sue amnesie ricominciavano
a dilaniarlo.
Com’era salito in quel barcone?
Si
massaggiò le tempie per allentare la pressione.
Era in Libia. Questo lo ricordava ancora. Un collezionista l’aveva contattato per
analizzare un antico teschio in suo possesso. Le scritte, secondo il
collezionista, facevano pensare che fosse la testa di Baphomet, l’idolo adorato
dai Cavalieri Templari. A Tripoli
soffiava un vento leggero. L’appartamento del collezionista era sottosopra. Un
biglietto gli diceva di partire per l’Italia al più presto. L’Università di
Padova aveva un testo interessante da consultare. L’imbarco era previsto nel
pomeriggio. Isaac fissò il bagaglio
scorrere sul nastro trasportatore dell’aeroporto libico, poi tirò fuori visto e passaporto dalla tasca
della giacca.
Il
sudore gli rigò la fronte. Andò in
bagno, posò le mani sui pomelli del rubinetto e aprì l’acqua. I muscoli del
collo si irrigidirono e Isaac indietreggiò di un passo. Il rumore dell’acqua
che si infrangeva sul lavandino gli ricordò quello delle onde contro il
barcone.
Sentiva le urla delle donne e il ciondolo d’elefante
attorno al collo gli premeva contro la pelle. Era supino con la guancia destra sul pavimento.
Tentò di rialzarsi, ma non c’era spazio per muoversi. Un neonato gli sorrise,
stretto tra le braccia di sua madre.
L’acqua
del rubinetto continuava a scorrere e lui a indietreggiare.
Un colpo. Il barcone si capovolse. L’acqua
gli penetrava dappertutto. Sentì alcuni uomini indicare qualcosa e li seguì.
<Diventerai
un uomo saggio e giusto. Usa il tuo cuore e il grande elefante ti guiderà>. Gli
profetizzò lo stregone del suo villaggio, prima che partisse per Ibadan.
Vide il corpo del neonato spaccarsi in due,
sbattendo contro le gabbie dei tonni. A poco a poco la gente lasciava la presa,
stremata. Passarono quindici giorni prima che un barcone di pescatori lo
trovasse. Aveva il corpo quasi
totalmente immerso, le gambe paralizzate e la pelle raggrinzita, quando gli
uomini lo videro. La medaglietta del grande elefante bianco era impigliata
nella gabbia e il luccichio dell’oro misto all’avorio attirò i marinai verso di
lui.
Il
sudore gli colò sugli occhi. La visione dell’acqua gli era intollerabile.
Indietreggiò ancora e inciampò contro il sacchetto del supermercato cinese.
Crollò a terra stordito. Poteva ancora sentire i rulli di tamburo del suo
villaggio. Un gallo era tenuto a testa in giù.
Vedeva le donne raccogliere il sangue che usciva dal collo dell’animale
e offrirlo ai loro figli.
Il
santone Okuimose impastò la statuetta del grande elefante con farina, uova e
sangue, la fuse con il bronzo, l’oro e un frammento di zanna dell’unico
elefante bianco visto in Nigeria. Poi la inserì in un sacchetto di pelle
avvolto in diversi colori e gliela porse.
<Ne
avrai bisogno>. Gli assicurò il santone con la bocca sporca di sangue. Il cervello del suo nemico rosolava nel
fuoco, mentre Okuimose beveva il suo sangue raccolto in una ciotola.
Isaac
Tutuola emerse dal trance, chiuse il rubinetto e cercò la confezione di
fazzoletti rinfrescanti tra quelle scritte in cinese. Nulla. Il negoziante non
aveva capito. Girovagò per il bilocale
alcuni minuti, poi aprì la porta e scese le tre rampe di scale fino all’uscita.
Il
negozio Sun stava per chiudere. Isaac
Tutuola allungò il passo ed entrò prima che la cassiera abbassasse la
saracinesca. I prodotti erano tutti scritti in cinese. La cassiera gli indicò
l’ultimo scaffale in fondo. Isaac Tutuola ispezionò le scatole cercando di
capire in quale potevano esserci i fazzoletti rinfrescanti.
Il
proprietario stava discutendo con un paio di uomini nel retrobottega.
Isaac
Tutuola prese una decina di scatole, alcune birre e le posò alla cassa.
Uno
degli uomini puntò una pistola alla testa del proprietario, mentre l’altro gli
intimava qualcosa in un italiano stentato. Il negoziante cinese uscì dal retro
bottega con le mani alzate. Scuoteva la testa e
indicava la cassa.
Uno
dei due rapinatori guardò verso Isaac Tutuola.
La
cassiera azionò l’allarme e si gettò a terra. Un rapinatore colpì il cinese
alla testa, facendolo crollare sul pavimento, mentre l’altro diresse la pistola
verso la cassa. Nella sua traiettoria trovò
Isaac Tutuola immobile come una statua.
Quattro
colpi risuonarono nell’aria.
2
<Che
cazzo è successo?> Chiese l’ispettore Amadeus Falco all’agente scelto Marco
Zaghetto.
<Non
lo so signore>. Rispose il sottoposto, accompagnando l’ispettore lungo una
delle due corsie del supermercato. <Il proprietario, Mo Yan …>.
<Ma
se il supermercato si chiama Sun?> Lo interruppe l’ispettore Amadeus Falco.
L’agente
scelto Marco Zaghetto si grattò la testa, perplesso.
<Plimo
plopletalio Sun, adesso negozio di Mo Yan>. Cercò di spiegare la cassiera
cinese, mentre il medico finiva di medicare il proprietario.
L’ispettore
Amadeus Falco accartocciò le labbra in segno di stizza. Aveva seguito un corso
di scrittura cinese e sapeva che il nome Mo Yan non portava nulla di buono.
<Mo Yan>. Ripeté a sé stesso. <Colui che non vuole parlare>.
Tradusse a bassa voce.
<Come
signore?> Chiese l’agente scelto Marco Zaghetto. L’ispettore guardò il suo
sottoposto, sorvolando la questione con un gesto della mano. <Lei cosa ha
visto?> Gli chiese, indicando la cassiera con il mento.
<Niente
signore>. Assicurò l’agente scelto. <Era sotto il bancone quando hanno
sparato>.
<Il
cinese invece?> Indicò Mo Yan seduto su di una sedia con la testa bendata.
Marco
Zaghetto fu costretto a scuotere di nuovo la testa. <Dice che il colpo alla
testa l’ha fatto cadere sul pavimento svenuto e quindi non ha visto nulla>.
L’ispettore
Amadeus Falco accartocciò di nuovo le labbra e fissò i rapinatori rannicchiati
in un angolo come due cani terrorizzati. Tenevano la testa rivolta verso
l’alto, gli occhi sgranati e ripetevano a pappagallo la parola Mama.
Amadeus
Falco si lisciò i baffi con pollice e indice fino ad affondarli nel folto
pizzetto del mento. Era stato svegliato in piena notte e non aveva avuto il
tempo di accorciarlo. Quei due bastardi gli avevano fatto passare settimane
d’inferno. Avevano terrorizzato Lombardia, Friuli Venezia Giulia e mezzo
Veneto, costringendo la polizia a turni raddoppiati. Era gente spietata.
Entravano nel luogo scelto, chiedevano il denaro e, al primo rifiuto,
lasciavano le vittime a marcire sul pavimento, cadaveri. Nessun testimone,
nessun indizio, solo due sagome nere con i volti coperti che entravano e
uscivano dai luoghi rapinati. Le telecamere di sorveglianza, quando c’erano,
non mostravano altro.
Che cazzo li ha ridotti così? Si domandò
mentalmente l’ispettore, mentre i suoi occhi castano verde squadravano i corpi
di quei due bastardi ondeggiare con il tronco del corpo avanti e indietro.
<Condizione
catatonica associata a deliri di controllo e di inserzione del pensiero. I
soggetti pensano di essere controllati da un’entità esterna e che quest’ultima
gli inserisca pensieri non propri nella testa>. Fu la diagnosi che il Dottor
Giuseppe Armani fece all’ispettore. <Se fossi in Lei non li lascerei senza
sorveglianza nei prossimi giorni. Il rischio di suicidio è alto>.
Amadeus
Falco si avvicinò ai due rapinatori, ne afferrò uno per la maglia e lo sollevò
di peso dal pavimento. Ricordava ancora il corpo di quel quattordicenne che avevano
soffocato nella sua villa di Brusegana. Il naso e la bocca gli erano stati
strappati con il nastro adesivo, mentre la madre galleggiava nella piscina. La
voglia era quella di lasciare che si impiccassero con il lenzuolo della cella,
ma la reputazione del corpo di polizia era più importante; fece un respiro
profondo e lo fissò negli occhi.
<Daniel
Bailar. 28 anni, rumeno. Ricercato per pluriomicidio dalla polizia rumena>.
Lo informò l’agente scelto Marco Zaghetto, allungandogli il mandato di cattura.
Amadeus
Falco attorcigliò il colletto della maglia del rapinatore intorno al suo pugno.
La merda arrivava in Italia con la velocità di un fiume in piena. Uno stronzo
di avvocato, un paio di ritardi e quel bastardo sarebbe stato fuori per
prescrizione. L’Italia puzzava come una fogna a cielo aperto e lui non poteva
farci nulla.
<Ispettore?>
Lo scosse il suo sottoposto. <Ispettore?> Proseguì, fissando il viso
paonazzo di Daniel Bailar.
Amadeus
Falco continuò a stringere. Sentiva la rabbia salirgli alla gola e insistette
nell’arrotolare il collo della maglietta di quel figlio di puttana.
Daniel
Bailar non opponeva resistenza, teneva la bocca aperta, respirava a fatica, ma
sembrava totalmente ignaro di quello che gli stava accadendo. <Mama. Mama>.
Era l’unica parola che ripeteva ininterrottamente.
<Ispettore?>
Gli si avvicinò il Dottor Giuseppe Armani, stringendogli il polso. <Non
comprometta la sua carriera, ispettore>. Gli consigliò, mentre con il mento
accennava a un paio di giornalisti piazzati contro la vetrina del negozio.
Amadeus
Falco mollò la presa, afferrò il mento del rapinatore e gli spostò il collo di
lato. Il medico scostò i capelli del rapinatore dalle tempie e ispezionò il
ferro che gli penetrava la pelle.
<Che
cazzo è?> Gli chiese Amadeus Falco.
Le
dita inguantate del Dottor Giuseppe Armani sfiorarono le tempie dell’uomo.
<Sembra una lobotomia piuttosto rudimentale>. Si stupì di non averlo
notato prima.
Due
campanelle di ferro emergevano appena dalle tempie di Daniel Bailar. Amadeus
Falco controllò il cranio del secondo rapinatore. La scoperta fu la stessa.
<Chi
gliele ha messe? Tu?> Si affrettò a urlare contro Mo Yan ancora fermo sulla
sua sedia.
Il
cinese fece di no con la testa.
<Chi
allora?> Continuò l’ispettore nervoso.
Mo
Yan sollevò i palmi delle mani in aria.
Amadeus
Falco guardò la cassiera. Era troppo esile e distante per aver aggredito i due
rapinatori. Una pallottola aveva
frantumato la sirena del soffitto, ma la maggior parte era stata scaricata verso la vetrata del
negozio. Il bancone di legno era intatto, constatò l’ispettore.
<Chi
altro c’era nel negozio?> Urlò Falco ai due cinesi, fissando il foro di una
pallottola alto nel muro. <Chi cazzo è Mama?>
Mo
Yan come diceva il suo nome, non voleva parlare, imitato dalla cassiera.
<Musi
gialli di merda>. Borbottò Amadeus Falco, sputando sul pavimento. Poi,
rivolgendosi ai suoi uomini. <Controllate questi stronzi. Passaporti. Visti.
Fornitori. Qualsiasi cosa li possa sbattere al fresco>. Ordinò con un filo
di voce.
Il
Dottor Giuseppe Armani lo fermò all’uscita. <Bisogna ricoverarli>. Gli
disse senza farsi intimorire dallo sguardo glaciale dell’ispettore.
<Mi
dica da dove provengono quelle ferraglie nelle tempie>. Annuì l’ispettore,
uscendo dal negozio.
Un
vento fresco aveva abbassato la temperatura di qualche grado. Amadeus Falco non
era caloroso. La sua eccessiva magrezza lo faceva assomigliare ad un pioppo
palestrato. Si aggiustò la giacca della divisa e analizzò la zona con un unico
colpo d’occhio. Aveva preso i due rapinatori più bastardi delle tre Venezie, il
caso si poteva considerare chiuso, eppure la sua innata ricerca dell’ordine lo
portava a non essere soddisfatto. Strinse il colletto della cravatta e chiamò
l’agente scelto Marco Zaghetto. <Fatti dare il nastro di quella telecamera>.
Gli ordinò, salendo nella volante che lo avrebbe accompagnato a casa. <Forse
sapremo chi ha ridotto così quei bastardi>.
Marco
Zaghetto acconsentì con un cenno della testa.
<Sul
mio tavolo, domattina>. Furono le ultime parole dell’ispettore prima di
chiudere il finestrino della volante.
L’agente
scelto vide l’auto svoltare a sinistra, si voltò verso il supermercato cinese e
spazzò via un paio di frammenti della vetrata con il tacco della scarpa.
All’ora della rapina i negozi della zona avevano già chiuso. Tutti gli
interrogati non avevano visto nulla di sospetto. ‘Gli
spietati del Triveneto ’, come li aveva battezzati la stampa locale,
erano sotto sorveglianza in ospedale e lui doveva rintracciare il fottuto
proprietario di una telecamera di sorveglianza.
Prese
una lattina di birra cinese fregata al negozio e ingurgitò un po’ di liquido in
gola.
Il
gusto di sapone che gli rimase in bocca gli fece passare la voglia di finirla,
gettò il contenitore a terra e lo schiacciò con il tacco della scarpa, notando
uno strano luccichio provenire dai buchi di un tombino.
3
Todos aquellos guerreros
que a mi cultura pasaron
Obatalá Las Mercedes,
Ochún es la Caridad,
Santa Bárbara Changó
y la Regla es Yemayá,
va a empezar la ceremonia
vamos a hacer caridad
La casa está repleta y ya no caben más,
y todos se preguntan qué dirá Elegguá
Cantava
il guardiano delle porte Atocha con il suo gancio ricurvo in mano, mentre
apriva il cammino agli uomini. Le gonne della dea Yemayà ruotavano sulla sua
testa. Il suo corpo si piegava in avanti ed emergeva verso l’alto come la spuma
dell’oceano.
Un
barrito si alzò dall’orizzonte.
I
tamburi batà aumentarono i loro tam tam.
Il
grande elefante bianco si avvicinava con il suo branco.
Isaac
Tutuola sentì il cuore pulsargli in gola.
Il dio
Ochosi tese il suo arco verso il grande pachiderma. Le mani affusolate dei
suonatori picchiavano i tamburi veloce, sempre più veloce. Il dio Ochosi scoccò
la freccia e trafisse il cuore del grande elefante bianco.
Isaac
Tutuola sollevò la schiena dal materasso e si portò le mani al petto.
Nell’appartamento
di fianco qualcuno stava litigando. Isaac Tutuola si inforcò gli occhiali,
guardò gli altri materassi appoggiati alla parete, si alzò e prese una birra
dal frigorifero. Odiava sbronzarsi, ma quel malto fermentato riusciva a
calmargli l’agitazione.
Le
urla dei vicini non cessavano.
Isaac
Tutuola guardò l’orologio della cucina. Erano le sei del mattino e quella gente
non accennava a smettere. Si infilò l’abito del giorno prima e appoggiò
l’orecchio destro alla parete.
<Lurida
puttana>. Urlava un uomo, battendo i pugni su di un tavolo. <Voglio la
mia roba, hai capito?>
La
donna rispondeva con dei singulti interrotti da urli di paura.
<Te
la sei fatta tutta>. Continuò l’uomo, facendo cadere degli oggetti sul
pavimento.
La
donna urlò con più forza, mentre si sentiva che stavano cambiando stanza.
<Ecco
cosa è rimasto>. S’infuriò l’uomo.
Colpi
furiosi si sentivano sbattere contro il muro. La donna si lamentava. Isaac
Tutuola sentì della gente gridare dalle terrazze degli altri piani.
<Che
cazzo volete piezzi di mierda?> Li insultò l’uomo, uscendo all’esterno con
un fucile sotto il braccio.
<Basta!>
<Vogliamo
dormire!>
<Chiamiamo
la polizia!> Rispondeva il vicinato.
Isaac
Tutuola squadrò l’uomo dalle fessure della tapparella. Indossava una camicia
verde pistacchio sbottonata fino all’ombelico che gli esaltava il pallore della
pelle tipica degli albini. L’uomo guardò verso le persiane chiuse
dell’appartamento di Isaac. L’iride rossiccia era evidenziata dal biancore
delle sopracciglia.
Isaac
Tutuola si ritrasse.
Un
paio di colpi perforarono le sue tapparelle e si conficcarono nel muro della
cucina.
<Ecco. Vanbracno
dijete>. Disse l’albino nella sua lingua, abbassando il fucile.
Isacc
Tutuola si avvicinò di nuovo alle tapparelle e osservò Nika avvicinarsi
all’albino. Sembrava stesse bene.
<Odjebi!
Nieri di merda>. Urlò l’uomo, sollevando il fucile sulla testa. <Non
rompiete il culo a Ivan Matvejević>. Minacciò, mentre un’altra donna lo
fissava in lacrime dalla portafinestra.
Isaac
Tutuola adocchiò il sangue che le usciva da un taglio sulla fronte. La donna
non riusciva a reggersi in piedi, appoggiò la schiena alla finestra e scivolò
fino al pavimento.
<Bisogna
portarla in ospedale>. Consigliò Nika all’albino, afferrandogli un braccio.
L’uomo
abbassò il fucile e si divincolò dalla presa di Nika. <Porta tu>. Ordinò,
sollevando le spalle. Poi entrò nell’appartamento e non si sentirono altri
rumori.
Isaac
Tutuola fissò le pallottole conficcate nel muro della sua cucina. Tre in tutto
e una aveva mandato fuori uso il frigorifero.
<Addio
bevande fresche>. Balbettò, facendosi il segno della croce. Poi s’infilò i
calzini e le scarpe, si tolse la collana dal collo e infilò la chiave
nell’antico lucchetto coreano. Uscì dall’appartamento, badando bene di azionare
il rudimentale, ma efficacissimo antifurto asiatico prima di abbandonare l’edificio.
4
<Ha letto i giornali?>
Amadeus
Falco si tolse l’auricolare dall’orecchio destro e girò la testa verso il
finestrino abbassato della Lamborghini Gallardo che lo stava affiancando.
<Vice
questore Fournier>. Lo salutò l’ispettore Falco, continuando il suo jogging
mattutino.
La Lamborghini Gallardo
lo seguì nella corsa. Amadeus Falco imboccò via Vivaldi. Il quartiere dove
viveva era un posto tranquillo della periferia. Aveva scelto di comprare quella
villetta a schiera dopo un attento esame della zona. Poco traffico, spazi
verdi, aria freschissima. Una piccola Hollywood fatta di gente benestante che
si faceva i propri affari.
<Allora
li ha letti?> Ripeté il vice questore Fournier, distraendolo dai suoi
pensieri.
Amadeus
Falco lanciò un’occhiata al giornale che il vice questore gli stava allungando
e lesse il titolo, mentre svoltava per via Paganini.
Polizia scioccata. Banda di
feroci rapinatori sgominata da ignoto Supereroe.
<E non è l’unico>.
Assicurò il vice questore, mostrandogli la pila di giornali che aveva sul
sedile.
Supereroi solo americani? La polizia si può riposare; ora anche il Nord
Italia ha il suo eroe sconosciuto.
Il Resto del Carlino
Polizia
di Padova incredula. I ‘Rapinatori del
Triveneto’ sgominati da un eroe della
notte. Unico indizio il nome pronunciato da un rapinatore: ‘Mama’.
Il mattino
Mistero sull’ignoto Mama che salva il Nord
Italia dai rapinatori.
Il Giornale
Gli
lesse il vice questore Fournier, prima di sbatterli sul sedile dell’auto.
<Chi cazzo è questo Mama?> Gli chiese con voce alterata. <Il
commissario Speranzoso è andato all’ospedale a interrogare quei figli di
puttana>. Lo informò, dequalificando il suo ruolo di ispettore. <Il
medico ha detto che dovevano operarli alla testa, ma una volta arrivati in sala
operatoria, non c’era più niente da operare. I pezzi di ferro …>.
<Campanelle>.
Precisò Amadeus Falco, nascondendo la rabbia che gli bruciava dentro.
<Cosa?>
Chiese il vice questore.
<Erano
due campanelle>. Continuò l’ispettore.
<Okey.
Quello che erano>. Tagliò corto il vice questore Fournier. <Comunque
erano scomparse. Svanite. Anche la
TAC al cervello non ha mostrato nulla e quei due cazzoni
continuavano a ripetere quel nome. Mama, Mama. Elefante. Mama>. Gli ricordò.
<Chi è questo Mama, un domatore del circo?> S’incazzò.
Amadeus
Falco imboccò via Paolo IV senza dire una parola. I suoi piedi si alzavano e
battevano sull’asfalto ritmicamente. Sentiva la frescura del mattino
accarezzargli i polpacci. Il cuore gli pompava nel petto con la frequenza di un
muscolo allenato, mentre il fegato filtrava le scorie del giorno prima.
<Hai
capito la domanda?> S’irritò il vice questore Fournier, spalancando la
portiera della Lamborghini Gallardo.
Amadeus
Falco si fermò prima di sbatterci contro.
<La
stampa non fa altro che telefonare in centrale>. Lo informò il vice questore
Fournier, piazzandosi davanti a lui. <Stiamo facendo la figura degli idioti>.
S’incazzò di nuovo. <Trovami questo stronzo o ti spedisco a lavare i cessi>.
Lo minacciò. <Ci siamo intesi, Falco?>
L’ispettore
lo fissò con i suoi occhi castano-verdi. <I tecnici stanno completando
l’analisi dei filmati di una telecamera esterna al supermercato cinese>.
Tagliò corto Falco. <Conoscerà la sua faccia in tarda mattinata>.
Il
vice questore Fournier non aggiunse altro, risalì in macchina e ordinò
all’agente alla guida di accendere la sirena. Doveva incontrare il dirigente
superiore, tenere una conferenza stampa e valutare le varie richieste dei
network televisivi.
Amadeus
Falco seguì con lo sguardo la Lamborgini Gallardo finché non la vide
scomparire. Poi s’infilò l’auricolare e terminò la sua corsa lungo l’argine del
Tergola. La sua vita scorreva come l’acqua di quel fiumiciattolo. I dislivelli
del fondale creavano piccole cascate dove i pesci guizzavano in superficie, le
libellule volavano a bassa quota e i pescatori incalliti mettevano alla prova
la loro salute.
Rientrò
in casa, azionò il bollitore dell’acqua, prese l’infuso di tè bancha e lasciò
le foglie immerse per cinque minuti. Le sue proprietà diuretiche e lo scarso
contenuto di teina gli avrebbero depurato il sangue. La sua adesione al
pensiero olistico giapponese lo portava a concepire il cibo come una sorta di campo
energetico che inevitabilmente influenzava l’essere umano quando lo assumeva.
Scatolame e cibi confezionati erano aboliti dalla sua cucina. Se voleva un
fisico sano doveva partire dal cibo, trovare un corretto equilibrio tra lo yin
e lo yang, questa era la sua regola di vita.
Mise
due fette nel tostapane e andò a rinfrescarsi.
L’idea
di togliersi dalla polizia lo allettava, mentre l’acqua della doccia gli
correva lungo la schiena. Aveva dei soldi da parte, poteva aprirsi un’agenzia
investigativa; qualche caso di gelosia coniugale da sbrigare, un orario preciso
e un ufficio lontano dal vice questore Fournier.
Uscì
dalla doccia, s’infilò l’accappatoio e andò in cucina. Il suo pane tostato era
pronto. Tirò fuori la marmellata di mele cotte che aveva preparato la settimana
prima e la spalmò sui toast. Il sapore delicato del tè bancha gli allentò la
tensione al primo sorso.
Conosceva
il vice questore Fournier da un anno. Era subentrato a quello precedente grazie
alle sue conoscenze politiche, rivelandosi subito un burattino al servizio del
potere. I leccaculo come il commissario Speranzoso avevano già ottenuto gli
avanzamenti richiesti, mentre lui era rimasto nel suo buco a fare turni
raddoppiati. Non era piaciuto al vice questore fin dall’inizio. Aveva troppo
intuito, troppa precisione per fare il poliziotto e i pestaggi non erano la sua
specialità.
Guardò
il cumulo di letame all’angolo sinistro del suo orto macrobiotico. Vittorio, il
suo vicino, gliel’aveva portato da due settimane, ma lui non aveva avuto ancora
il tempo di concimare i suoi ortaggi. Voleva prendere il telefono, chiamare la Questura e dare le
dimissioni.
S’infilò
una fetta di pane tostato in bocca e cominciò ad assaporare la marmellata di
mele lentamente.
Lo
avrebbe fatto, avrebbe consegnato quelle stramaledette dimissioni se non ci
fosse stato quel caso in sospeso. Chi
aveva ridotto quei due figli di puttana in quel modo? Che volevano dire
con la parola Mama? Il vice questore
aveva parlato di ‘Elefante’ tra le loro frasi sconnesse? C’era un eroe in giro
o si trattava di un pazzo pericoloso?
Falco
sapeva per esperienza che i più
grandi episodi di follia erano ispirati dal delirio di giustizia.
Non
poteva lasciare un caso a metà. Il commissario Speranzoso era una testa di
cazzo, incapace di pulirsi il culo senza una dozzina di aiutanti pronti a
servirlo. Il caso sarebbe stato archiviato e il dubbio lo avrebbe logorato
interiormente. Sentiva la necessità di ordinare i fatti, di riportare gli
elementi al loro giusto equilibrio.
Aprì
il frigo, prese il termos con la crema di cereali, la vaschetta di plastica
colma di insalata e li infilò nella sua borsa per il pranzo. Nel suo ufficio
c’era la registrazione della telecamera esterna. L’agente scelto Marco Zaghetto
gli aveva lasciato il messaggio in segreteria. Avrebbe iniziato la sua giornata
da quella.
S’infilò
una camicia bianca, giacca e pantaloni
di lino ecrù e i mocassini di pelle scamosciata al posto dell’uniforme
estiva di servizio. Poi aprì il suo
cassetto delle cravatte e scelse quella di seta jacquard bianca con strisce
nere e bordeaux, la sua passione. Prese le chiavi della Peugeot 207 XS blu metallizzato e mise in moto. Il Cd dei Nickelback partì automaticamente.
I’m driving black and black
Just got my license back
I got this feelings in
my vein this train is coming off the track
I’ll ask polite the
devil needs a ride
Because the angel on
my right ain’t hanging out with me tonight
Cantava
la voce roca e potente di Chad Kroeger mentre la Peugeot correva verso il
centro della città.